Il prima
Longarone prima della sciagura
La storia di questa tragedia era iniziata ben prima, potremmo dire già agli inizi del 1900.
È proprio nei primi anni del XX° secolo che, costituita la SADE, si cominciano a cercare le valli migliori per destinarle, dopo averci costruito un bacino artificiale, alla produzione di energia elettrica.
I primi sopralluoghi nella Valle del Vajont
Vajont, prima del 1963, era il nome poco conosciuto di una valle, in sinistra orografica, del medio corso del Piave, di cui è affluente. Le acque del torrente Vajont hanno scavato lo stretto solco fluviale tra le ripide pareti rocciose, dando origine ad una forra profonda oltre 300 metri.
La posizione geografica ha fatto sì che le acque del Vajont venissero impiegate per la produzione di energia e per azionare segherie e mulini già da molti secoli, ma è con l’arrivo della SIV (Società Idroelettrica Veneta, poi assorbita dalla SADE, Società Adriatica di Elettricità) negli anni ’20, che prende corpo la svolta nella storia di questa valle.
Tra gli anni ’30 e gli anni ’60 la ricchezza delle acque alpine del bacino imbrifero del fiume Piave divenne oggetto di sfruttamento intensivo: venne predisposta un’architettura di capillare utilizzo di queste acque con dighe, condotte forzate e centrali, tra le quali il lago artificiale del Vajont, grazie alla sua posizione strategica, avrebbe occupato un ruolo di primaria importanza.
Il 19 gennaio 1922 la società anonima Bortolo Lazzaris presenta domanda per una concessione di derivazione del Piave in Comune di Perarolo; il 30 gennaio 1929 viene presentata una richiesta specifica per il Vajont, con un progetto firmato dall’ing. Carlo Semenza.
I progetti della diga e la sua costruzione
Il progettista della diga del Vajont è l’ingegner Carlo Semenza: si tratta del maggior costruttore di dighe in Italia ed uno dei maggiori esperti al mondo di dighe a doppio arco; era spesso chiamato come consulente in tutta Europa ed anche in paesi extra europei.
Il primo progetto di diga nella valle del Vajont è datato 1940, nel quale il bacino veniva concepito come serbatoio di raccolta e compensazione pluristagionale di una rete d’acque. In questo modo si sarebbero meglio garantite riserve ed alimentazione d’acqua alle centrali idroelettriche della pianura.Il progetto iniziale prevedeva una diga alta 202 metri con una capacità di 50 milioni di metri cubi d’acqua e si appoggiava sulla relazione geologica del prof. Giorgio Dal Piaz: il parere favorevole del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici arrivò in tempi drammatici per il nostro Paese, il 15 ottobre 1943, quando forse lo Stato aveva la testa impegnata in affari più importanti.
In realtà il destino di questo iniziale progetto sarà di subire continue modifiche e varianti per migliorare l’utilizzo delle acque. L’11 ottobre 1948 l’ing. Carlo Semenza chiede un parere geologico sul possibile innalzamento della diga fino a quota 730 s.l.m., altezza della diga 226 metri; il prof. Dal Piaz risponde con due lettere, datate 15 ottobre e 21 dicembre 1948.
Date le caratteristiche tipicamente favorevoli alla costruzione di uno sbarramento offerte dalla valle del Vajont, si propongono due ipotesi costruttive: l’una che prevede una diga fino a quota 679 metri s.l.m., l’altra fino a quota 727 metri s.l.m. La soluzione prescelta sarà quella intermedia tra le due.
La sua costruzione
Alla fine della II guerra mondiale, visti l’aumento della modernità con i conseguenti aumenti dei bisogni energetici nazionali e l’abilità riconosciuta a tecnici e maestranze italiani, come progettisti e costruttori di dighe, visti i generosi finanziamenti pubblici per il comparto elettrico e gli allettanti profitti, la SADE progettò un ulteriore innalzamento della diga per il massimo sfruttamento della valle.
Il 31 gennaio 1957 la SADE presenta dunque la domanda per una variante e il 22 aprile viene consegnato il progetto esecutivo della diga… ecco realizzato il progetto Grande Vajont: prevede infatti una diga alta 265 metri (arrivando così a quota 722,50 metri s.l.m.) per un bacino che aveva una capacità utile di 150 milioni di metri cubi d’acqua, superiore alla somma degli altri sette bacini artificiali costruiti lungo il corso del fiume Piave e dei suoi affluenti… rispetto al progetto iniziale si era alzata la diga di “soli” 63 metri, ma la capacità del bacino era triplicata! Anche questa volta la relazione geologica porta la firma del prof. Giorgio Dal Piaz; il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici esprime voto favorevole il 15 giugno 1957. La domanda per l’autorizzazione all’inizio dei lavori e la dichiarazione d’urgenza sono datate 1° luglio 1957; la relativa autorizzazione arriverà 15 giorni dopo, il 17 luglio 1957.
La sua costruzione
Iniziano nel gennaio 1957, i lavori di scavo delle fondazioni della diga del Vajont, la diga a doppio arco più alta del mondo dell’epoca, che raggiungerà il suo culmine in poco meno di tre anni. Perplessità e timori, ammonimenti contrari all’audace opera non mancheranno mai durante tutto il periodo di costruzione e della diga e dopo, con l’inizio e il proseguimento degli invasi.
Non si possono assolutamente negare al progettista e ai costruttori l’orgoglio e l’abilità nella realizzazione di quest’opera; non si può lasciare in secondo piano nemmeno il fatto che Longarone, ma soprattutto Erto e Casso, venivano a trovarsi, l’uno dirimpetto ad un’opera che tutto il mondo ammirava, gli altri affacciati su un ampio lago artificiale che avrebbe portato inevitabilmente un flusso turistico, rinforzando l’economia dei luoghi.
Purtroppo però, qualunque cosa, come anche la vita di ogni uomo, può considerarsi felice o meno solo alla fine della sua esistenza; quindi per giudicare quest’opera d’arte, che è la diga del Vajont, bisogna arrivare alla fine di questa storia.
La frana del 4 novembre 1960
Con il livello dell’acqua nel bacino artificiale del Vajont a quota 640 metri s.l.m., il 4 novembre 1960, dal versante sinistro della valle cadde una frana di 700.000 metri cubi, di materiale incoerente.
La frana provocò danni, ma nessuna vittima. Sollevò un’onda che si abbatté sugli edifici fortunatamente vuoti perché prossimi ad essere coperti dall’invaso, lesionò ed allargò crepe in altre costruzioni e nei terreni circostanti.
Fu indubbiamente un chiaro segnale dei pericoli incombenti e soprattutto una prova indiscutibile a favore di coloro che sollevavano il problema della sicurezza. Tra queste persone bisogna citare Tina Merlin, giornalista dell’Unità, che aveva denunciato i problemi di sicurezza e le ingiustizie relative al comportamento della SADE nei confronti degli abitanti di Erto e Casso molto prima che la tragedia si compisse; è stata però a sua volta denunciata per notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico. Venne però assolta il 30 novembre 1960 perché nulla vi era di falso, esagerato o tendenzioso.
La frana del 1960 fornì dati, indicazioni e conferme importanti.
Come detto, la frana del 1960 non provocò morti, ma in seguito ad essa si aprì sul versante del monte Toc una lunga frattura con profilo ad “M” che corre sul monte Toc ad un’altezza di circa 1200 metri di altitudine; questa frattura segna il perimetro della futura frana del 1963. Essa ha un fronte di circa 2,50 chilometri, percorre praticamente tutta la parete del monte Toc che si affaccia sul bacino artificiale del Vajont, sulla sponda sinistra della valle.
Gli allarmi sociali mai ascoltati
In seguito alla frana del 1960, i timori che fino a quel momento ognuno aveva conservato nel proprio intimo, esplosero improvvisamente. La popolazione di Erto e Casso, più vicina alla diga, sente che qualcosa succederà: il Toc è stato trapanato da sonde, frustato dallo scoppio delle mine sul versante opposto per costruire la nuova strada, sollecitato dall’acqua del lago che sale e scende nel bacino artificiale ai suoi piedi; si aggiunge la pioggia stagionale che entra nelle sue viscere. La gente ha paura: sente le continue scosse sismiche locali, vede le case riempirsi di fessure e crepe; gli animali selvatici fuggire da quel versante del monte Toc; il lago stesso presentare macchie giallastre ai piedi della “parete maledetta”.
Le preoccupazioni di tutti sono soprattutto di ordine geologico: lo dico gli abitanti della valle per antico sapere, lo scrive la giornalista Tina Merlin, lo prevedono soprattutto i tecnici altamente qualificati, quali i geologi Semenza e Muller. Malgrado queste previsioni, la SADE, pressata dall’imminente nazionalizzazione delle Società produttrici di energia elettrica, vuole portare al collaudo il serbatoio del Vajont.
Nella paura la gente vorrebbe sapere la verità, vorrebbe che gli uomini della SADE rispondessero ai loro interrogativi, semplici domande sulla sicurezza del loro futuro in quella valle. La SADE, invece, ulteriormente preoccupata, non del destino dei montanari, ma del successo del suo enorme investimento nella realizzazione di quell’opera, compie ripetuti sopralluoghi, soprattutto presso quella enorme frattura che segna vistosamente il lato sinistro della vallata. Ovviamente sceglie di non parlare: tacere sia con gli abitanti sia con il Ministero a Roma. Ritiene inutile diffondere notizie preoccupanti prima del tempo: è meglio provvedere da sé a sistemare le cose. ecco che nasce l’idea di costruire una galleria (by-pass) all’interno della montagna per conservare l’unità del bacino.
Il by-pass
Le indagini geologiche che fecero seguito alla frana del 1960, come detto, confermano la presenza sul versante sinistro del Vajont di una grande frana in movimento, che una volta scivolata avrebbe ostruito l’intera valle; dunque il livello del lago si sarebbe alzato in modo incontrollato e l’acqua non sarebbe più arrivata alle prese, rendendo il serbatoio inutilizzabile.
L’ingegner Semenza propone allora di costruire, nelle rocce compatte del versante destro della valle, una galleria di sorpasso (by-pass), per permettere il controllo del livello dell’acqua nel lago e per mantenere la funzionalità dell’impianto.
Per accelerare i tempi il lavoro viene affidato a due imprese: Monti e Zadra, che lavoreranno fino ad incontrarsi negli scavi. Il 5 ottobre 1961 la galleria è terminata: ha una lunghezza di 1800 metri e un diametro di 4,5 metri.
Gli allarmi sociali mai ascoltati
Probabilmente per cercare una risposta, tranquillizzante e convincente, la SADE incarica il prof. Augusto Ghetti, direttore dell’Istituto di idraulica e costruzioni idrauliche dell’Università di Padova, di effettuare delle prove idrauliche su modello per esaminare gli effetti di un’eventuale frana nel lago artificiale del Vajont. Le prove si effettuano presso il Centro Modelli Idraulici di Nove di Vittorio Veneto; lì si cerca di valutare l’azione dinamica sulla diga, risultante dall’onda provocata dalla frana e gli effetti dell’onda sul serbatoio e sulle località vicine. Nel modello, che riproduceva la valle del Vajont in scala 1:200, riempito a differenti livelli d’acqua, vengono fatte cadere varie quantità di materiale. Vengono così rilevati i tempi di caduta, l’innalzamento del livello dell’acqua e la quantità d’acqua che supera la diga.
La relazione Ghetti, datata 3 luglio 1962, delle 22 prove effettuate riporta che non vi è pericolo per i paesi di Erto e Casso, tanto meno per Longarone, e considera nella quota di 700 metri s.l.m. la quota di sicurezza, anche in vista del più catastrofico degli eventi di frana.
Se la SADE cercava una risposta tranquillizzante, l’aveva trovata.
Dalla SADE all’ENEL
La legge 6 dicembre 1962, n. 1643 istituisce l’Ente Nazionale Energia Elettrica (ENEL); con decreto del Presidente della Repubblica 14 marzo 1963, n. 221 viene disposto il trasferimento dell’impresa elettrica dalla SADE all’ENEL.
Il 20 marzo seguente viene presentata richiesta di portare l’invaso fino a quota 715 metri s.l.m. (15 metri oltre l’indicazione di sicurezza fissata dal prof. Ghetti); l’autorizzazione viene accordata dal Servizio Dighe del Ministero il 30 marzo; così l’11 aprile inizia il terzo, l’ultimo, fatale invaso per raggiungere quota 715 metri s.l.m., quota che il bacino del Vajont non raggiungerà mai.
Il periodo transitorio per il passaggio dalla SADE all’ENEL va dal 16 marzo al 27 luglio.
Vengono infatti trasferiti all’ENEL tutti i beni e i rapporti giuridici, nonché tutto il personale della SADE. D’ora in poi quanto accadrà sul Vajont porterà anche la firma diretta dello Stato: prima era solo controllore, ora diventa proprietario di un manufatto pericoloso che conosce molto poco, perché gli è stata in parte nascosta la verità e perché in parte non l’ha voluta conoscere.
Assieme al patrimonio della SADE passano alle dipendenze dello Stato tutti i suoi dipendenti… al Vajont è come non fosse cambiato niente: gli stessi uomini continuano a lavorare con gli stessi metodi e con le stesse strategie.
Gli invasi
Una volta terminata la costruzione della diga, nel settembre 1959, l’interesse si sposta agli invasi, cioè si vuole iniziare a riempire d’acqua questo bacino.
Il 28 ottobre 1959 si presenta la domanda per procedere al primo invaso, portando l’acqua a quota 600 metri s.l.m. L’autorizzazione è accordata il 9 febbraio 1960, ma l’invaso inizia il 2 febbraio seguente. Il 10 maggio 1960 si ha una nuova richiesta di invaso: questa volta si vuole portare l’acqua fino a 660 metri s.l.m.
Il 23 dicembre 1961 viene data l’autorizzazione per un secondo invaso che porterà il livello del lago artificiale fino a quota 655 metri s.l.m., elevata a 675 metri s.l.m. il 6 febbraio 1962. Il 3 maggio 1962 la SADE chiede l’autorizzazione per l’invaso fino a quota 700 metri s.l.m., autorizzazione concessa l’8 giugno successivo e altezza raggiunta il 17 novembre.
Il 9 ottobre 1963
Man mano che l’acqua cresce all’interno del bacino del Vajont per raggiungere il prima possibile la quota di 715 metri s.l.m., crescono anche i fenomeni di pericolosità: tonfi, boati e scosse sono ormai all’ordine del giorno. Verso la metà di settembre, a quota 710 metri s.l.m., si accentua la fessura verso la punta del monte Toc: si notano inclinazioni di alberi, avvallamenti sulla strada… anche i 90 capisaldi luminosi, che erano stati installati sulla parete franosa del Toc dopo la frana del 1960 per tenere sotto controllo i movimenti della stessa, si spostano sempre più verso valle, tendendo ad aumentare la velocità. Il 27 settembre 1963 si decide di svasare, facendo scendere velocemente l’acqua del bacino di 1 metro al giorno.
Il 9 ottobre 1963 è una splendida giornata di sole, una di quelle giornate calde che si registrano di tanto in tanto in autunno in montagna; è un mercoledì, mercoledì di coppa: la sera c’è la partita di calcio in Eurovisione, il Real Madrid contro i Ranger di Glasgow. Molti longaronesi si radunano nei bar a vedere la partita, perché le televisioni in casa erano ancora rare.
Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 il monte Toc cede. La frana, da anni in movimento, non riesce più a reggersi sulle pareti del monte, appesantita dall’acqua, messa e tolta più volte ai suoi piedi. Si stacca in un blocco unico, portando con sé alberi, strade e case.
Dopo pochi secondi raggiunge la velocità di 90 km/h, con cui si tuffa dentro il lago. Il bacino ha appena raggiunto la quota di 700,45 metri s.l.m., quota di sicurezza… se la frana avesse avuto le dimensioni e le caratteristiche di quella usata dal prof. Ghetti nel suo modello. Purtroppo le cose erano molto differenti: solo la frana ha una massa di 5 volte superiore. Tuffatasi nel lago, risale per circa 100 metri sulla sponda opposta, mettendo in movimento una massa d’acqua di 50 milioni di metri cubi.
Parte di quest’acqua si dirige verso Erto, protetto da uno sperone roccioso, ma quell’onda travolge le frazioni del comune costruite sulle sponde del lago; altra parte d’acqua si alza verso Casso, circa 300 metri più in alto della diga, e ne lambisce i piedi. La parte più cospicua d’acqua, dopo essersi alzata di un centinaio di metri sopra la diga, si è incanalata nella stretta forra del Vajont, con una velocità di 70 km/h, acquisisce energia, potenza e vigore, piomba sul greto del Piave formando un lago profondo 45 metri e largo 250-300 metri e poi, di rimbalzo, si riversa su Longarone e sulla valle del Piave, riducendola ad una spianata livida di fango, detriti e ghiaia.
Pochi furono i feriti; dove passarono le acque non vi fu scampo né per gli uomini né per le cose; 1910 è il numero accertato delle vittime.
Il grande serbatoio del Vajont risulta essere diviso in due parti: un lago di grandi dimensioni a monte della frana, un lago assai più piccolo, che si prosciugherà presto, a ridosso della diga. Sul terreno e sui fianchi della montagna raggiunti dall’onda l’abrasione è impressionante, la roccia è messa a nudo, la vegetazione è stata interamente sradicata.